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L’imprenditorialità sembra andare sempre più verso una nuova stagione che si caratterizza, da un lato, per il rifiuto di un modello basato sulla massimizzazione del profitto in favore di un modello centrato sul principio di reciprocità e, dall’altro, per lo sforzo di dare un senso, cioè una direzione, all’attività d’impresa, che non può trovare nel mero profitto il suo unico fine. Un’impostazione, dunque, basata sul superamento del trade-off esistente tra profitto e impegno sociale (Zamagni, 2013). In altre parole, l’attività imprenditoriale si sta caratterizzando quale generatrice al contempo di valore economico e sociale.

L’esito di questa transizione sta trasformando le imprese in soggetti intenzionalmente sociali, in quanto è proprio nel rapporto con la società che si costruisce la competitività (tema largamente affrontato anche nel Rapporto Symbola, Coesione è Competizione). Questa tendenza ad incorporare “sfide e componenti di socialità” nel DNA dell’imprenditore sono osservabili, ad esempio, nel crescente numero di start up for profit che “scalano” dentro un perimetro di sfide sociali legate al ben-essere, alla cura delle persone e delle comunità.

Si tratta di dinamiche che dimostrano come occorre promuovere l’imprenditorialità nel suo complesso (visione olistica del valore aggiunto), quale asset in grado di produrre valore a prescindere dalla funzione obiettivo perseguita (profit, mutualistica, not for profit). Per fare ciò, 3 sono i principali assi su cui è possibile agire e sui quali l’imprenditore e la sua attività si sviluppano e si distinguono dalla “managerialità” (Cantillon, 2010 [1755]):

  • la propensione al rischio: l’imprenditore è un soggetto non avverso al rischio, ovviamente calcolato; ciò significa che egli si muove all’azione prima ancora di conoscere quale sarà l’esito delle sue attività;
  • la capacità di innovare: l’imprenditore non è tale se si limita a replicare quanto è stato realizzato da altri. Egli è dunque un soggetto che concorre a dilatare la frontiera delle possibilità produttive;
  • l’ars combinatoria: al pari del direttore d’orchestra, l’imprenditore deve conoscere non solo le capacità dei suoi collaboratori, ma anche le caratteristiche del genius loci e ciò al fine di organizzare il processo produttivo in maniera tale da favorire l’armonia di tutte le componenti. Tale capacità è per l’appunto “un’arte” e non “una tecnica” e pertanto postula la relazionalità per essere educata.

Parlare di sociale in ambito imprenditoriale allora non significa solamente far riferimento agli ambiti di attività in cui può operare l’impresa (welfare, solidarietà, …); il riferimento è connesso piuttosto alla capacità dell’imprenditore di produrre innovazione sociale, ovvero generare soluzioni nuove, più efficaci, efficienti e giuste di quelle esistenti in risposta a problemi di natura sociale. In altri termini, significa infrastrutturare l’impresa e le sue componenti attraverso logiche di condivisione e comunitarie (sempre più frequenti sono, in tal senso, le imprese che si concepiscono come “piattaforma").

In questo senso sono soprattutto le giovani generazioni, e in particolare i cosiddetti millennials, a richiedere che l’imprenditorialità sia un percorso ibrido, ossia mosso dalla ricerca di una produzione di valore sociale e, al contempo, orientato dalla "socialità" (es., community hub, start up innovative a vocazione sociale, imprese low profit, etc.) (Miller, 2016). 

Ma perché questa non resti una tendenza occorre che ci sia una reale “educazione” ovvero un processo attraverso il quale la conoscenza, che già è insita in ogni persona, emerge (“educare”, dal latino “e-ducere”, etimologicamente significa infatti “condurre fuori”, far venire alla luce qualcosa che è nascosto) (Venturi, Rago, 2014). Nell’elaborazione di nuovi percorsi di educazione all’imprenditorialità, risulta pertanto strategico, promuovere e sperimentare esperienze imprenditoriali su base collettiva, collaborativa e cooperativa.

In Italia esiste già un bacino di imprenditorialità che fa del sociale un asset strategico: ad esempio, oltre alle 1.348 imprese sociali ex lege (cui si aggiungono 12.570 cooperative sociali), esiste un gruppo di 61.776 imprese di capitali che operano nei settori della legge 118/2005. Un investimento nella dimensione “sociale”, pertanto, può essere uno strumento utile a dilatare le motivazioni e il perimetro dell’educazione imprenditoriale proprio perchè corrispondente alle motivazioni pro-sociali delle nuove generazioni e ai cambiamenti che la produzione di valore impone.

Tre sono le dimensioni dell’impresa su cui immaginare un’azione di promozione e sperimentazione, che vadano a coinvolgere soprattutto le giovani generazioni: 

  1. dimensione ibrida: presentare e far conoscere la biodiversità dei modelli d’impresa esistente (non solo imprese "tradizionali", ma anche imprese sociali, cooperative, start up innovative a vocazione sociale, società benefit). Per fare ciò è necessario recuperare la visione di imprenditori "illuminati" come Olivetti, nonché ripartire dai principi originari della cooperazione, per capire le diverse ragioni che spingono gli imprenditori ad assumere forme imprenditoriali diverse per perseguire i propri fini;

     
  2. dimensione collettiva: incrementare momenti d’informalità ed incentivare l’incontro con imprenditori per alimentare un confronto con i giovani e instaurare un dialogo costruttivo a partire dalla loro esperienza, in luoghi aperti alla contaminazione ( es. co-working) Studi recenti dimostrano come giovani che crescono in aree ad alta densità imprenditoriale da adulti siano più favorevoli ad intraprendere percorsi imprenditoriali (Guiso et al. 2015). Posto poi che essi diventino effettivamente imprenditori, gli stessi individui hanno anche maggiori probabilità di essere imprenditori di successo (dimensione misurata in termini di reddito d’impresa o di produttività). Ciò che abilita tale sviluppo di imprenditorialità non è connesso tanto a variabili quali, ad esempio, un migliore accesso a strumenti di finanziamento esterni, quanto piuttosto alla possibilità di sviluppare capacità imprenditoriali attraverso la relazione con altri imprenditori in luoghi anche informali.
     
  3. dimensione comunitaria: i bisogni sociali e la richiesta di prestazioni di welfare trovano sempre più risposte attraverso azioni imprenditoriali "con" e "per" la comunità, anche attraverso sperimentazioni innovative condivise con gli attori presenti sul territorio. Incentivare la capacità di costruire risposte imprenditoriali a bisogni e sfide della società e dei territori (innovazione sociale) generando valore condiviso sia per l’imprenditore stesso che per i territori in cui le sue attività si realizzano dovrebbe essere un ulteriore obiettivo imprescindibile di nuovi percorsi educativi in ambito imprenditoriale. In questo ambito la palestra per fare emergere una nuova asset class d’imprenditori, potrebbe nascere proprio dal porre al centro della loro esperienza le “sfide della loro comunità”.

Riferimenti

Venturi, P., Rago, S. (2014), La resilienza del movimento cooperativo: evoluzione e valore aggiunto, in M. Ruffino e P. Venturi (a cura di), La formazione continua nella cooperazione. Le politiche e l’attività di Fon.Coop: valori, risultati, prospettive, Bologna, Il Mulino.

Zamagni, S. (2013), Impresa responsabile e mercato civile, Bologna, Il Mulino.

Cantillon, R. (2010) [1755]. An Essay on Economic Theory. Auburn, Alabama, Ludwig von Mises Institute.

Guiso, L., Pistaferri, L., Schivardi, F. (2015), Learning Entrepreneurship From Other Entrepreneurs?, in NBER Working Paper No. 21775.